Due dipinti ad olio su tela - "Mosè fanciullo spregiatore del Faraone" e "Mosè salvato dalle acque"
Così come i restauratori che, silenti, lavorano devoti alla propria missione, o come gli storici dell’arte e gli studiosi, come tanti che, mossi solo dalla passione per lo studio, la ricerca, la scoperta di qualcosa che era dimenticato in silenzio operano per tutta la vita così la nostra Vittoria, presenza femminile stoica e unica nel panorama valtellinese e lombardo del ‘700. Fedele collaboratrice del padre prima e poi del fratello, rinunciò alla sua vita stessa, alle sue ambizioni e propensioni di sposa, di madre o di sposa di Cristo per seguire il lavoro di famiglia e che anche dopo la morte del padre e del fratello portò avanti questa professione e i suoi insegnamenti anche con i nipoti. Un mestiere che, nel Settecento come nell’antichità, era fatto per trarne reddito, quindi ben lungi dal concetto attuale di artista, un lavoro attento e scrupoloso che il nostro Pietro, in modo quasi unico, riporta, trascrive, annota nel famoso Mastro N, registro di tutta la produzione ligariana. Il nome di Vittoria nel Mastro N si respira sempre in sottofondo poiché non vi sono opere autografe e a lei attribuite in modo certo se non ad esempio la pala di Ganda di Lanzada.
Ammirata dai suoi contemporanei come “esempio di raro e non ordinario talento” (Francesco Saverio Quadrio-1756), sentì sempre la stima del padre, che come vediamo nel ritratto che le fa in cui, pieno d’orgoglio, la raffigura con tavolozza e turbante d’artista, la coinvolse nelle numerose commissioni ricevute ma che restano sempre in secondo piano. Ella infatti pagò purtroppo la sua condizione di donna, relegata per natura alle mansioni femminili e a una vita domestica a cui non si sentirà mai appartenere al punto che il fratello Cesare di lei scrive in una corrispondenza del 1764 come sempre vissuta " nello studio fra Pittura e Musica, non essendosi adattata alli soliti impieghi femminili benché anche l'ago lo eserciti in vigore". Ma come tutte le donne ella non cercava né riconoscimenti né prestigio, il solo suo diletto era poter fare ciò che sentiva dentro, ossia dipingere e essere una pittrice.
E’ per questo che Vittoria, oggi vive ancora e viene considerata un esempio di coraggio e ribellione per ogni donna, una ribellione sana che ripiega tutta la sua forza su qualcosa di meraviglioso e che nessuno più togliere ossia la bellezza dell’arte. Rubo una bella frase (associazione culturale Progetto Alfa) che la descrive: “Vittoria, dismette i suoi panni di pittrice per divenire icona della forza delle donne, del coraggio di scegliere, della semplicità di vivere nel nome dell’arte e della libertà”.
Nel 2008, succede un grande evento che celebra la famiglia Ligari, la Banca Credito Valtellinese in occasione del suo centenario organizza una grande mostra, realizzata tra le Sedi di Sondrio e Milano, che rende grande lustro a questa famosa bottega di famiglia e alle loro grandi opere, spesso relegate agli onori della Valtellina ma che, per la loro grande abilità e conoscenza da uomini di cultura, dalla grande competenza come architetto (Pietro), come pittori di tele ma anche negli affreschi maestosi che arricchiscono chiese e palazzi sparsi per la valle, sul lago e in Svizzera la cui bellezza proviene da una formazione in tutta Italia, dimostra come le loro produzioni non abbiano nulla da invidiare al resto dei pittori settecenteschi. La descrizione di questa grande mostra, fatta anche di impegnativi trasporti a Milano di grandi dipinti come la Messa di Gregorio Magno è sapientemente raccolta nel bel volume ad essa dedicata di Simonetta Coppa e Eugenia Bianchi. Per questa grande occasione e vetrina anche la Banca Popolare decise di dare il suo contributo non solo prestando i due dipinti ma finanziando anche il loro restauro.
I due dipinti in oggetto raffigurano le “storie di Mosè” e hanno modeste dimensioni di 45 x 60 cm.
Nel Mastro N vengono annoverati tra la produzione di Vittoria e vengono citati quali opere consegnate all’Abate Giovan Simone Paravicini, canonico della cattedrale di Como con dimora anche a Morbegno, conosciuto come figura ricorrente nella produzione di Pietro. I dipinti elencati proprio nel Mastro N sono riportati insieme ad altre opere, il Quadrio invece nel 1755 descrive proprio le due opere quali dipinti destinati alla dimora comasca della famiglia Odescalchi. Secondo gli studi di Camillo Bassi che riporta nel suo libro del 1931 le tele furono consegnate il 26 Marzo ’43, le misure, all’incirca uguali, e tali documenti suggeriscono che ci si riferisca proprio a tele dipinte da Vittoria anche se non ne pubblica immagini, perché forse “guaste”. E’ qui che nascono i dubbi sulla possibile esistenza (possibile perché non esiste menzione nei documenti) di due altri dipinti, le opere definitive quindi, forse di dimensioni leggermente superiori, eseguiti da Vittoria stessa in cui ella, a giudizio del Quadrio (1756) viene “descritta come pittrice di raro e non ordinario talento”. Altro elemento che fa sorgere questi dubbi è il prezzo pagato per tali opere, 10 doppie per entrambi, un prezzo alto se riportato alle quotazioni di Vittoria che spesso veniva chiamata per opere minori o comunque inferiori rispetto al padre o al fratello Cesare. Dopo aver perso le tracce per più di un secolo ricompaiono nello studio di Giovanni Gavazzeni a Talamona, poi a Morbegno di proprietà di Luigi Fanchi e successivamente a Giovanni Ghislanzoni nel 1941 fino al 1983 quando vennero acquisite dalla Banca Popolare di Sondrio.
I due dipinti che furono sempre in coppia rappresentano due scene della vita di Mosè bambino: Mosè salvato dalle acque del Nilo (Pentateuco- primi 5 libri della Bibbia) e Mosè fanciullo sprezzatore/spregiatore del faraone. Di questo episodio non vi è traccia nell’Antico testamento e dobbiamo a Laura Meli Bassi il ritrovamento dell’episodio da cui è tratto. Nella biblioteca ligariana la Meli Bassi ritrova il testo di Giuseppe Flavio “le antichità giudaiche” (un testo del 60 d.c.) in cui si narra la storia del popolo ebraico e tale episodio viene raccontato anche nel testo tardo cinquecentesco del predicatore Alonso del Villegas in cui si racconta di questo episodio “costui. Essendo alla presenza del Re e della sua figliola, la quale lo aveva adottato per figliolo, essendo il Re molto contento della sua bellezza e della sua presenza, essendo di 3 anni burlando con lui gli pose sopra il capo la propria corona e che Mosè, molto adirato, la prese e la gettò per terra.”(sapeva di essere ebreo)
Purtroppo lo stato di conservazione prima soprattutto dal punto di vista estetico dei due quadri ne ha comportato, prima del restauro, una difficile attribuzione, a causa dei numerosi strati di vernice alterata e gli ampi ritocchi che ricoprivano la superficie. Nella famiglia Fanchi di Morbegno infatti, proprietaria dopo il Gavazzeni agli inizi del 1900, vi era un restauratore ed è proprio a lui che si attribuisce l’antico intervento sia conservativo che estetico su entrambe le opere.
I richiami a Pietro comunque sono evidenti ma vero è anche che nella stessa bottega i disegni preparatori, i bozzetti e gli schizzi venivano passati e usati da tutti. In questo caso comunque, soprattutto nella scena del Mosè fanciullo, anche un occhio attento può percepire subito ciò che, come ben descrive Laura Meli Bassi nel suo Volume conosciutissimo,:
…“Lo stile richiama a tal punto quello di Pietro che, senza la dichiarazione del Quadrio, si sarebbe tentati di attribuirle a lui…” .
E il restauratore che più di tutti osserva e guarda un’opera per giorni interi, mesi, ha modo proprio di entrare come nessuno in un dipinto, percepirne la costruzione, gli aspetti materici della pittura, dalla composizione, all’uso del colore, al ductus.., nel mio caso, avendo già lavorato anche sulle grandi tele del Pietro del 1725 del Santi Patroni Gervasio e Protasio vi sono dei richiami proprio di sensazione che sicuramente per chi sta lavorando non possono non fare venire qualche percezione di dejavu…
Le opere si presentavano in cornice con il vetro di protezione (che ricordo sempre non essere adatto per le tele ma solo per disegni o acquerelli) ed erano in discreto stato di conservazione dal punto di vista strutturale, purtroppo invece, come detto precedentemente, presentavano un grande strato di sporco, vecchie vernici e ritocchi diffusi virati e alterati risalenti all’ultimo restauro.
Al Fanchi attribuiamo anche un intervento di foderatura dei dipinti, sostituzione del telaio con uno ad espansione e applicazione di una bordura di carta lungo tutto il perimetro delle opere forse per esporli senza cornice. E’ da precisare che questo vecchio intervento era fatto bene dal punto di vista conservativo e aveva ancora un buon effetto di tenuta sul supporto, motivo per cui si è deciso di non andare a toccare il dipinto dal punto di vista strutturale, per la regola sempre valida e preziosa di operare secondo il “minimo intervento”, ossia risparmiando all’opera operazioni non necessarie o comunque non determinate da una condizione di conservazione in pericolo o perchè non fruibili esteticamente.
Riguardo alla fase operativa del restauro è necessario dire che, nonostante le opere fossero in coppia, era necessario e indispensabile approcciarsi ad ogni singolo dipinto in modo univoco, perché come sempre accade non si ripetono mai le condizioni né dal punto di vista esecutivo, ne nell’aspetto conservativo e di riflesso anche metodologico sugli interventi che ne richiedono. In primis si è preso in esame il dipinto del “Ritrovamento” e dopo aver fatto le opportune prove e analisi grazie a lampade UV e ingranditori, si è provveduto a rimuovere la striscia di carta che era incollata sul bordo. L’operazione seguita con tamponcini di cotone e acqua tiepida ha consentito di riscoprire, sotto questa bordura, un colore ben diverso, dai toni alla cromia molto più brillante. In seguito sono state aperte piccole finestre di saggio e come sempre accade in questo passaggio, ci si rende conto di quanto sporco sia un dipinto e di come ben diverso in realtà sia il dipinto come l’autore l aveva concepito.
Se dal punto di vista conservativo il Fanchi (o comunque il vecchio restauratore) aveva operato in modo ineccepibile e che, ad oggi, non creava problemi strutturali, perché la vecchia foderatura teneva bene, non emergevano segni di sollevamenti o scarsa adesione al supporto, dal punto di vista estetico invece, anche a causa anche del tempo passato che fa virare i colori proprio dal punto di vista cromatico emergevano tutta una serie di ridipinture, riprese pittoriche e situazioni in cui il film pittorico originale era sicuramente celato o comunque manomesso. Nonostante questi due dipinti non fossero opere vincolate, perché di proprietà di un Ente privato, si è ritenuto e si trovata grande accoglienza nel condividere le diverse fasi lavorative con figure di storici dell’arte che potessero completare una ricostruzione filologica dei vari passaggi della vita dei dipinti e di ciò che si stava facendo; le scelte che si sono affrontate quindi, soprattutto durante le delicate fasi di pulitura e in seguito per la reintegrazione pittorica sono state ragionate e ponderate grazie al supporto di Angela Dell’Oca che, con cadenza settimanale, veniva in laboratorio e vedeva gli sviluppi del lavoro.
Anche la dott.ssa Sicoli, funzionario di zona della Soprintendenza, in visita già a Sondrio per altri sopralluoghi è arrivata più volte per visionare ciò che stava emergendo.
Pur lavorando separatamente e con approcci diversi a seconda del rispettivo dipinto si è preferito seguire in parallelo e contemporaneamente nelle due opere, per essere sicuri di operare in modo univoco su entrambi i quadri, soprattutto nella scelta di rimuovere o meno alcune riprese pittoriche e vecchi ritocchi. Alcune infatti non sono state rimosse ma solo abbassate di tono ma lasciate anche le stuccature perché solide. Terminata la pulitura, nella fase di stuccatura, soprattutto nel Ritrovamento si è resa necessaria una imitazione di superficie delle diverse stuccature che soprattutto erano ringranature delle piccole microlacune che esistevano sulla superficie. Nella fase di riaccompagnamento pittorico avvenuto con acquerelli, vista le piccole dimensione delle opere, che portano ad un’osservazione più ravvicinata e soprattutto la morbidezza dei passaggi tonali si è preferito (sempre grazie a delle prove) non integrare la superficie delle stuccature con un ritocco differenziato a selezione o a tratteggio (che avrebbe dato una lettura troppo netta della lacuna) ma si è scelto di effettuare un riaccompagnamento cromatico più velato e mimetico.
A restauro ultimato le conclusioni sono evidenti, ciò che emergeva già prima della pulitura ma che grazie all’intervento ora possono essere confermate con dati oggettivi sono la diversa tecnica pittorica esecutiva, i materiali costituenti non corrispondenti (ad esempio nel Ritrovamento la preparazione è leggermente granulosa mentre nel Mosè fanciullo è più liscia e levigata), la tavolozza e le dominanti cromatiche sono diverse così come la costruzione della composizione, l’una più statica e classicheggiante l’altra più spezzata e in movimento, altro elemento che si notava era il ductus diverso, nel primo più levigato mentre nel secondo più veloce e sicuro, l’uso della luce, nel primo diffusa, nel secondo come strumento di pittura, ossia direzionata laddove interessa colpire e attirare l’attenzione chi guarda (dalla grande lezione di Caravaggio che cambiò completamente il modo di sfruttare questo elemento per esprimere dei significati e in seguito come userà anche Rembrant, al punto di essere ricordato come tipo di illuminazione nella fotografia moderna).
Proprio grazie al restauro emerge ciò che già si poteva intuire anche prima ossia che le tele non sembrano eseguite dalla stessa mano.
Ciò che però è una vera scoperta, possibile solo eliminando il grosso strato di sostanze non originali presenti in superficie, è il fatto che le opere manifestano in taluni punti caratteristiche di non finito o comunque contrastano elementi di grande ricercatezza come altre zone in cui la raffigurazione è resa solo da una macchia di colore piatta (non causate da cattive puliture precedenti). E qui esce ancora più forte quel famoso dubbio se questi non siano dei piccoli bozzetti, meravigliosi ma pur sempre bozzetti, magari a due mani (Pietro e Vittoria) di quei famosi due dipinti identici, forse leggermente più grandi, dipinti solo da Vittoria in cui il Quadrio parla di lei in termini così superlativi.
Quindi nulla è chiaro, nulla è ancora definitivo ma questo è il segreto dell’arte e del suo fascino, un’inesaurabile fonte di scoperte che ancora aspettano qualcuno che le studi.
Figlia di Pietro Ligari, “fu applicata da suo padre alla Pittura e alla Musica”, scrive l’abate Francesco Saverio Quadrio, che dei Ligari fu amico di famiglia, nelle sue Dissertazioni critico-storiche. Ma se il padre ne fu l’unico maestro in pittura, alla musica Vittoria Ligari fu avviata da Giovanni Zappello, che fra il 1721 e il 1722 le insegnò a suonare la spinetta e nel 1730, diede a lei e al fratello Cesare lezioni di violino. Vittoria Ligari suonava anche l’organo, studiato con P.P. de Capitanio, organista della Collegiata di Sondrio, e il suo talento, “nel canto è veramente maraviglioso” dice sempre il Quadrio.
Non si conosce molto della sua vita. Sempre dal Quadrio sappiamo che era molto bella - come conferma anche il ritratto che ne fece il padre che diede il suo volto ad alcune Madonne e all’Allegoria della Musica nella tela da soffitto di Palazzo Salis a Coira - ma scelse di rimanere celibe “avendo più partiti rifiutati nel pensiero di volersi piuttosto monacare”. Che avesse più volte meditato di farsi monaca, pare confermato anche da diversi cenni e indizi che si ritrovano nelle lettere e nelle carte sue e di suo fratello Cesare. Alla fine, tuttavia, la passione per l’arte dovette probabilmente prevalere e Vittoria, oltre alla musica, si dedicò completamente alla pittura all’ombra del padre, di cui divenne allieva e stretta collaboratrice, eseguendo talora copie dei suoi quadri.
Anche delle sue opere - di cui ci danno notizia le fonti e lo stesso libro di famiglia, il cosiddetto Mastro N, redatto da suo padre e in seguito dal fratello e da lei stessa - se ne conoscono poche.
Fra quelle più rilevanti, la Madonnina della Collezione Fanchi di Roma, la Pala d’altare del 1756 per la Chiesa di Ganda, commissionatale dal cugino P. Angelo Mottalini, curato di Lanzada, e le due tele Mosé salvato dalle acque e Mosé fanciullo spregiatore del Faraone, dipinte per Casa Odescalchi all’Olmo di Como e di cui parla il Quadrio.
Come nota Laura Meli Bassi nella monografia dedicata alla dinastia dei Ligari (I Ligari, una famiglia di artisti valtellinesi del Settecento, Sondrio, 1974), Vittoria si mantiene sempre rigorosamente fedele ai canoni estetici del padre e al suo stile di cui fu una diligente interprete, al punto da non distinguersene se non per un tratto “meno vigoroso e incisivo, talvolta alquanto lezioso”.
Malgrado fosse molto cagionevole di salute, Vittoria Ligari visse molto più a lungo del padre e del fratello Cesare, essendo morta a Sondrio a settant’anni, il 9 dicembre 1783.
Bibliografia:
Francesco Saverio Quadrio, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina, III, Bologna, Forni, 1970 (ristampa fotomeccanica dell’ed. del 1756);
Laura Meli Bassi, I Ligari. Una famiglia di artisti valtellinesi del Settecento, Sondrio, Banca Piccolo Credito Valtellinese, 1974;
Laura Meli Bassi, I Ligari (Pietro, Cesare, Vittoria), in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Settecento, (a cura di Simonetta Coppa), Bergamo, Bolis, 1994; Simonetta Coppa, Eugenia Bianchi (a cura di),
I Ligari. Pittori del Settecento lombardo, catalogo della mostra di Milano in occasione del centenario di fondazione del Credito valtellinese (1908-2008), Skira-Credito Valtellinese, 2008; Paolo Vanoli,
I Ligari. Atlante delle opere, Skira-Credito Valtellinese, 2008.
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