NOTIZIE STORICHE E CENNI DI CARATTERE STORICO ARTISTICO
L’intero complesso ove è situata la Chiesa che contiene l’ancona lignea e la sua pala d’altare fu realizzato nel sec. XIII dalla famiglia nobile Rusca di Como di fede ghibellina. Dell’antico castello che vi si trovava (detto appunto di Mongiardino) non rimangono che alcune rovine presso la sommità del colle. La Chiesa, dedicata appunto a S. Gregorio Magno, è stata visibilmente rimaneggiata ripetutamente nei secoli e, sebbene integra nella struttura, richiedeva anch’essa alcuni interventi urgenti di ripristino e sistemazione, effettuati , ovviamente, prima della ricollocazione delle opere d’arte dopo il restauro. (revisione del tetto, deumidificazione della parete di fondo, drenaggio delle pareti dall’umidità infiltrata per risalita capillare…)
Maria Gnoli Lenzi : “(L’ancona)…racchiude una cornice rettangolare entro cui è un dipinto a olio su tela rappresentante il Bambino Gesù fra tre Santi, dei quali quello di sinistra è S. Gregorio Magno in ricchi paramenti. Il dipinto misura 1,70 x 1,50 mt. circa. * Sull’altare della chiesa. Tanto l’ancona quanto il dipinto provengono dall’altare di S. Francesco della Parrocchiale di omissis Discretamente conservati.Nella parte inferiore del dipinto si legge a malapena la seguente iscrizione di dubbia interpretazione: IACOBUS PHILIPPUS ROSSIS PINXIT ANNO 1658 (o 1668 o 1633?). Ercole Bassi, (non so su che base,) afferma l’ancona essere opera di Sosio Filippo e Bartolomeo…probabilmente di Bormio…L’Urangia Tazzoli ne ritiene probabile autore tale Giacomo Filippo Sossio o Sosio…probabilmente di Semogo presso Bormio… Secondo lui l’iscrizione dovrebbe leggersi: IACOPUS PHILIPPUS PINSIT, ANNO 1633.
Ammettendo che tale ipotesi sia vera bisognerebbe supporre che l’autore dell’ancona lignea oltre che intagliatore, fosse anche pittore e autore del dipinto, cosa del resto non frequente in quei secoli, specie in Valtellina.”
* la scritta riportata dalla Gnoli Lenzi non sembra corrispondere a quella da me decifrata “Iacobus Philippus Bossius Pinxit anno 1628”-n.d.a.).
Copia trascritta degli appunti di Battista Leoni con relativi riferimenti bibliografici depositati presso la Biblioteca “Luigi Credaro” di Sondrio.
Bossi (o Bossio) Guglielmo di Luigi: Intagliatore e pittore cittadino milanese Nel 1628 la confraternita del SS. Sacramento di omissis commissionò al Bossi e al di lui figlio Giacomo Filippo un’ancona lignea intagliata e policromata a forma di portale barocco contenente un dipinto su tela raffigurante il Bambino Gesù fra tre santi firmata in basso “Iacobus Philippus Bossius pinxit anno 1628” per l’Oratorio di San Gregorio. Risulta inoltre che i due Bossi eseguirono, sempre nel 1628, tre quadri per la Chiesa di San Pietro di omissis e si impegnarono per un quarto quadro per 60 scudi. Nella tela di omissis il Bassi e l’Urangia Tazzoli lessero anziché Bossius – Sossius e la Gnoli Lenzi – Rossius. Il 28 marzo 1628 in Fusine insieme al figlio Giacomo Filippo, il Bossi “civis mediolanensis professor artis pictoris” abitante in Fusine si impegnò ad insegnare per il periodo di tre (manca) l’arte “pingenti” a Cesare Pozzi figlio del fu Giovanni di Teglio per un compenso di 55 aurei di Valtellina (£ 6 per aureo di moneta di Valtellina).
L’ICONOGRAFIA DELLA RAPPRESENTAZIONE
Anche se è compito dei competenti storici dell’arte analizzare la rappresentazione dal punto di vista artistico si fa cenno, nelle successive poche righe, alle figure raffigurate nel dipinto e alle loro particolarità. Fermo restando che è certo che nella composizione la parte centrale sia costituita dal Cristo Crocifisso con ai piedi San Gregorio Magno in abiti pontifici (chiroteche, tiara..) resta da verificare chi siano gli altri due Santi (hanno infatti entrambi l’aureola). In un vecchio articolo (CentoUno) si parlava dei Santi Rocco (in piedi) e Carlo Borromeo (in ginocchio); tale attribuzione era per lo più dovuta la fatto che fossero Santi invocati contro la peste ed essendo stata la Chiesa di San Gregorio un lazzaretto o comunque luogo di sepoltura degli appestati il collegamento viene da sé. In realtà tali attribuzioni non sembrano essere verosimili perché: san Rocco (anche se in parte mancante nella figura) non è rappresentato come solitamente ossia come un eremita, vestito da pellegrino che mostra la piaga della peste. La figura in piedi è di rosso vestita (manto o tunica) e potrebbe far pensare a Carlo Borromeo se non fosse per il volto completamente diverso dall’iconografia classica (ha capelli e barba lunga, il naso non aquilino e la veste verde). Di riflesso anche il Santo inginocchiato non ha nulla del San Carlo ed è vestito da pellegrino (come potrebbe essere San Rocco) se non fosse che non mostra la ferita e non è vestito da eremita. Per personali supposizioni, che andranno opportunamente verificate dagli studiosi, si potrebbe individuare nel Santo inginocchiato San Giacomo Maggiore per il bordone, la conchiglia sul petto, il cane, mentre San Marco nell’altro Santo per il leone ai suoi piedi. Una particolarità che non è stata approfondita è data da un piccolo stemma appuntato a fianco della conchiglia del pellegrino sul Santo inginocchiato raffigurante il sacro Volto di Cristo. Cos’è? Il velo della Veronica? Può essere invece un richiamo all’effige santa del Sacro Volto di Manoppello vicino a Roma? Un legame con gli emigranti valtellinesi a Roma?
IL RESTAURO DELLA PALA D'ALTARE DI SAN GREGORIO: UNA MISSIONE (QUASI) IMPOSSIBILE
L’opera, per motivi sconosciuti, è giunta a Don omissis da poco nominato Arciprete nella Parrocchia di omissis, dopo la cessione per limiti di età del predecessore. Per un certo periodo di questo quadro non se ne sapeva più nulla, poi un giorno, guardando in un deposito della Casa Parrocchiale è' stata trovato un sacco nero (uno di quelli usati per i rifiuti) e il contenuto era proprio quel che restava della Pala d'altare di quasi 3 metri per 2. Di certo si sa che tale dipinto (da sempre collocato nella Chiesa di San Gregorio di omissis) tra gli anni ’80 e ‘90 era purtroppo stato oggetto di danneggiamenti da parte di vandali che si erano introdotti nella Chiesa e avevano bruciato e tagliato l’opera in diversi punti. Dopo questi atti di sfregio il quadro era stato rimosso dalla sua sede e per tanti anni non se ne è saputo più nulla. Nel 2006, su sollecitazione di alcuni parrocchiani che volevano sapere che fine avesse fatto l’opera, è misteriosamente ricomparsa e restituita al Parroco appunto accartocciata nel sacco di plastica. Il nuovo Arciprete ha quindi cercato di distenderla sul pavimento di un locale della canonica in attesa di valutare il da farsi. In questa collocazione provvisoria, non corretta ma decisamente più consona della precedente, il dipinto è stato per circa due anni (fino all’estate 2008) dopodiché si è deciso, non senza dubbi e perplessità, di tentare il suo recupero.
Lo stato in cui versava l’opera era poco più che disastroso e, solo guardando una fotografia, si capisce che inutile è qualsiasi commento. Ai fini della documentazione però è sembrato necessario descrivere come è apparso il quadro, agli occhi di chi scrive, nel momento in cui è stato fatto il primo sopralluogo.
L’opera si presentava libera da telaio e ridotta ad una quantità di innumerevoli pezzi e dalle diverse dimensioni. Anche i lacerti più grandi sebbene ancora uniti erano prossimi al distacco, vista la secchezza dell’intera superficie. Il film pittorico, quasi completamente illeggibile, era coperto da un grosso strato di polvere, sporco, residui organici di animali, macchie di acqua e umidità. Sul retro, visibile solo da alcuni frammenti, poichè il manufatto non si poteva girare, vi era muffa ovunque e tracce di bruciature. La consistenza dei vari frammenti era quella di un cartone, completamente imbarcato e talmente secco che,solo una leggera pressione, creava una spaccatura netta di tutti gli strati.Si poteva vedere che, in passato, il lacerto più grande, unito per pochi fili, era stato incollato (per fortuna con una colla blanda) su un grande pezzo di stoffa nera su cui poi erano stato cuciti e rammendati in malo modo o incollati i vari pezzi più o meno combacianti. Durante il periodo di mantenimento nel sacco il tutto si era mescolato e quindi ciò che si vedeva non era per nulla intuibile perché accostato, sovrammesso, piegato, accartocciato in modo del tutto casuale e innaturale. Oltretutto lo stato di conservazione di quest’opera, già così fortemente provata per vandali, abbandono e mantenimento in una Chiesa con gravi problemi di umidità, si era irrimediabilmente compromesso per la quantità di polvere, umidità, muffa e la posizione assunta dallo schiacciamento e compressione durante il suo mantenimento nel sacco durato probabilmente anni.
Nella proposta di intervento, formulata per portare avanti il progetto, era scritta questa frase: “qualsiasi intervento e scelta della metodologia da adottarsi andrà valutato, con un’analisi più accurata e le dovute prove, in accordo con l’autorità ecclesiastica e la competente Sovrintendenza. Per la particolarità del lavoro, l’unico intervento che, per ora, si può considerare è l’imballo e trasporto dell’opera in laboratorio. Visto l’attuale stato di conservazione dell’opera esaminata, sembra opportuno precisare che, qualsiasi intervento, sarà volto unicamente al mantenimento di ciò che è rimasto senza poter considerare il recupero di parti mancanti o il loro ripristino; non si esclude l'ipotesi reale di dover rinunciare ad intervenire per impossibilità di eseguire alcuna operazione: in tal caso l'opera sarà persa per sempre.”
Vista l’impossibilità di eseguire qualsiasi operazione di velinatura, per essere trasportata in laboratorio, l’opera è stata spianata il più possibile e distesa in ogni pezzettino. Sopra vi sono stati adagiati dei fogli di carta velina e dei teli protettivi e quindi chiusa “a sandwich” tra due grandi piani di legno uniti da morsetti. Una volta giunta è stato tolto l’imballo, alzando il piano sopra con teli e veline e facendo delicatamente slittare il telo nero su cui era precariamente attaccata dal piano di trasporto al tavolo di lavoro.
Lì è cominciata una lunga fase di studio, analisi, valutazione e consultazione al fine di capire e soprattutto “inventare” un metodo per poter recuperare al meglio quanto rimasto. Si usa il termine inventare perché, mai come in questo caso, ogni canonica operazione doveva essere adattata a quest’opera che non poteva essere in alcun modo spostata, girata o messa in verticale e che aveva subito ogni sorta di degrado e presentava tutte la gamma di problematiche messe insieme. Il problema più complesso che si poneva consisteva nella restituzione della sua unità strutturale e formale e la prima difficoltà incontrata è stata quella di non poter velinare il manufatto; questo a causa della confusione, della mancanza di una superficie piana e della sovrammissione di vari pezzi di opera e la presenza di sporco ovunque. Era oltretutto necessario infatti vedere ciò che si faceva e una velinatura avrebbe impedito la visione dei lembi e soprattutto del film pittorico per capire dove andavano fatti combaciare i vari frammenti. C’è da dire però che, nonostante l’urgente necessità di proteggere con una velinatura gli stati pittorici già fortemente messi a dura prova, se i vari frammenti si spostavano dolcemente lo strato di colore non era a rischio di caduta.
La prima fase, sempre ovviamente lavorando in piano, è consistita nel taglio con delle forbicine da cucito dei grossi fili da rammendo che univano alcuni frammenti di tela originale alla tela nera. Si sono eliminati anche i punti che erano stati fatti in passato in modo molto grossolano per rammendare alcuni lembi di dipinto tra loro o con toppe (applicate sia su retro che sul fronte) di vecchia tela. Dove non vi erano le cuciture di rammendo vi era una colla debole e oramai secca; qui si è delicatamente staccata la tela originale dalla stoffa nera. La grossa tela nera appunto di sostegno, sporca e sgualcita, è stata delicatamente fatta slittare sotto e quindi eliminata. Una volta liberata la tela da supporti di interferenza, non originali e soprattutto non consoni, si è iniziato un lavoro di ricomposizione dell’opera, sempre in piano. Il lacerto più grande (che comprendeva la Crocifissione, parte del San Gregorio e il Santo inginocchiato) era tagliato e lacero ma comunque unito tra se da pochi fili che avevano resistito. Questa parte è stata ben stesa e da lì si è partiti per la ricostruzione: le decine di frammenti staccati che, come si può ben vedere dalle foto, erano appoggiati sopra in modo confuso sono stati tolti e, previa spolveratura e pulitura a secco con pennello, divisi in diverse cassette a seconda del colore e della zona di appartenenza. Tali porzioni partivano da una dimensione di decine di cm quadrati sino ad arrivare ai più piccoli (ma di un colore ben definito e riconducibile ad una parte della composizione) di pochi cm quadrati.
C’è da dire che, per fortuna, esisteva anche una documentazione fotografica (*1) precedente le mutilazioni e che ha aiutato l’attuazione di una ricostruzione evitando il pericolo di una ricostruzione arbitraria. Si è proceduto quindi, come nella composizione di un “puzzle”, con la collocazione e giustapposizione di tutti i frammenti, dai più grandi ai più piccoli, prima dai più evidenti ed intuibili, per colore, forma, bordi, sino ad arrivare ai più minuti, sino a che l’opera lentamente prendesse forma. Nel frattempo venivano anche effettuate varie prove di calore, umidità e solventi al fine di individuare il metodo (a base acquosa o sintetica) con cui procedere. Anche se erano evidenti alcuni movimenti del supporto (vista l’umidità che aveva patito nei secoli precedenti) è emerso che l’opera supportava sia acqua che calore e quindi, fino a che è stato possibile, si è optato per l’apporto di un metodo acquoso per cercare il più possibile di ammorbidire i vari strati componenti l’opera e restituire una certa planarità sia a supporto che al film pittorico molto segnato dalla craquelures. Si specifica che si sono utilizzati materiali a base di acqua solo fin che è stato possibile perché, come meglio si dirà in seguito, l’apporto di umidità era comunque da controllare e limitare.
Man mano quindi che il dipinto e la raffigurazione si ricomponevano si cercava altresì di spianare, con umidità e calore, i vari lembi di tela per migliorare così consistenza degli strati, planarità e zone di unione. Il dipinto, dopo certosina e lunga ricollocazione, durata circa un mese, ha quindi ripreso forma sia nelle dimensioni perimetrali (prima incomprensibili) che nella composizione. Era a questo punto evidente che, malgrado il difficile recupero e ricollocazione di tutto ciò giunto fino a noi, vi erano delle zone di mancanza e mutilazione (nell’ordine del 40% della superficie circa), delle porzioni di dipinto oramai andate perdute e che andavano a interrompere la lettura delle varie componenti dell’opera. C’è da dire che nella sventura del manufatto, le zone di interruzione comunque non riguardavano i volti anche se restavano lo stesso piuttosto evidenti e quindi ciò dava pensiero anche per l’aspetto finale di lettura del quadro. Questo aspetto però si è preferito rimandarlo alle fasi successive perché, in questo restauro, si è cercato di risolvere un problema alla volta, per non complicare le cose più di quanto già lo fossero. La superficie quindi, individuata nel suo ingombro massimo, ricomposta sul piano di lavoro nella sua raffigurazione, restituita almeno in parte della sua planarità doveva essere ora consolidata. Per tale operazione si era scelta una colla organica (lapin) unita a emollienti naturali. Tale liquido doveva però ovviamente essere utilizzato sul retro, per impregnazione, per poi essere attivato nelle sue proprietà con calore dal davanti. Come si poteva fare per girare l’opera in “mille” pezzi? Si doveva velinare. Come si poteva velinare con così tante lacune di supporto? Dopo una serie di prove si è studiato un modo speciale di velinare: a colla di coniglio, con carta giapponese tagliata a pezzetti per unire i lembi e poi, in più strati, una velinatura più ampia anche laddove non vi era supporto. Lo scopo era ricreare superficie e continuità di supporto anche dove non vi era più e ricomporre un’area che potesse essere movimentata per le fasi successive. Tale operazione doveva creare continuità ma nel farlo si doveva prestare un’attenzione millimetrica perché si doveva far combaciare perfettamente ogni singolo lembo; ciò che si ricomponeva infatti sarebbe poi stato il risultato finale e definitivo e ogni errore sarebbe stato evidente senza possibilità di porvi rimedio. Le complicazioni in questa fase erano due:
- le deformazioni permanenti della tela dovute all’umidità che aveva sempre patito,
- quelle che erano sopraggiunte con la piegatura forzata e che ne rendavano quasi impossibile la perfetta giuntura,
unita a questi due fattori vi era per di più la controindicazione che, quando la velina asciugava, non si vedeva più nulla del colore e quindi ci si doveva augurare di aver fatto un ottimo lavoro perché diversamente sarebbe stato troppo tardi.
A questa fase, così cruciale e delicata, si è dedicato tantissimo tempo. Ora era possibile girare e spostare il dipinto perché aveva una sua forma, un suo ingombro e consistenza e qui è necessario fermarsi per fare alcune considerazioni. Proprio grazie alla possibilità di vedere il retro dell’opera (cosa prima, come già detto, non possibile se non limitatamente) ci si è resi conto solo in questo momento della gravità della situazione sul supporto:
- la tela presentava le impronte e il segno evidente del cretto del colore,
- il supporto non era uniforme ma risentiva delle deformazioni malgrado la velinatura
- soprattutto vi erano segni di bruciature e muffa ovunque. (“Nei dipinti su tela l’attacco microbico inizia quasi sempre dal retro….).(*2)
Il retro è stato pulito da residui dei colla delle toppe, dai fili di rammendo, dal poco sporco e si è cercato di rimuovere la parte più evidente della presenza delle muffe. Nonostante l’evidenza di un attacco biodeteriogeno si è scelto di procedere con un consolidamento a base acquosa perché solo tale sostanza avrebbe restituito consistenza ai vari strati componenti, avrebbe nutrito il colore e la preparazione e consentiva di essere stirata e lavorata al fine di migliorare contemporaneamente deformazioni della tela e cretto del colore. Nel frattempo si è preparata la tela da rifodero si sono fatte numerose valutazioni in merito alla sostanza da usare come adesivo per la rintelatura.
Dopo aver attentamente valutato i rischi e i vantaggi offerti dalle diverse metodiche di lavoro si è giunti alla conclusione che, nonostante tutti gli aspetti positivi dati da una rintelatura alla “fiorentina”, in questo caso l’impiego di un adesivo acquoso era troppo rischioso per svariati motivi (sensibilità del supporto, collocazione finale dell’opera in un luogo molto umido e poco controllato, grande presenza di muffe sul supporto). L’impiego di una sostanza non sensibile all’umidità garantisce inoltre una tensione costante della tela sul telaio e preserva la superficie da eventuali deformazioni, soprattutto in previsione delle condizioni ambientali a cui sarà esposta l’opera una volta ricollocata. (*3) Riassumendo, l’adesivo adottato, in accordo con il funzionario incaricato della Soprintendenza è quindi il Beva 371 il quale:
“….In conclusione si vuole sottolineare come la complessità delle problematiche legate alla conservazione dei dipinti su tela non può essere risolta semplicemente nella polemica pro o contro la foderatura, oppure l’uno o l’altro dei possibili sistemi, così come la soluzione non può essere vista solo nelle capacità specifiche di un materiale. Si tratta di un atteggiamento critico che, partendo dall’esatta conoscenza della tecnica dell’opera e dall’individuazione delle cause dei fenomeni di degrado, sappia individuare di volta in volta nell’ormai vasta gamma di scelte possibili quella più adeguata al caso specifico, con lo scopo di risanarne i danni rispettando però le caratteristiche estetiche e storiche.” (*4)
Le lacune del dipinto in cui rimane esposta la tela da rifodero (su cui non era stato messo l’adesivo), al fine di evitare diverse tensioni perché zone prive di materia pittorica, sono state trattate e “bloccate”, dal retro, con Beva, in diluizione più alta rispetto a quello usato per la foderatura. Questo per evitare che la discontinuità della superficie in trazione dovuta alla diversità di strati nelle zone limitrofe conduca a diverse distorsioni nel piano del dipinto.
Entro certi limiti temperatura e umidità relativa hanno un’influenza minima sulla resistenza della tela alla deformazione. E’ la tensione invece a rivelarsi come fattore decisivo che determina quanto fortemente una tela resista ad uno spostamento. (*8)
Una volta ritensionata l'opera su nuovo telaio, in occasione di un ulteriore incontro con il Funzionario di zona della Soprintendenza, si è presentata la proposta (motivata dalla preoccupazione di una conservazione più “sicura” possibile) di eseguire, in corrispondenza delle numerose zone di ancoraggio della tela originale sulla tela da rifodero, dei salvabordi (non vere e proprie stuccature) che preservassero l’opera dall’insidiarsi di polvere e sporco. Infatti, sebbene questa foderatura e il tipo di adesivo impiegato, per i motivi precedentemente elencati, dia grandi garanzie di conservazione, con questo accorgimento si era ancora più certi che, vista la collocazione in una chiesa molto umida e poco utilizzata l’opera fosse protetta anche in quelle piccole zone più fragili ed esposte. Tali stuccature, eseguite con stucco a base di gesso da doratore e colla organica, non hanno fine estetico ma solo conservativo. Non sono quindi appositamente “a livello” e ricercate nell’imitazione di superficie (che tra l’altro in questo caso avrebbe impiegato molto tempo vista la scabrosità degli strati originali e la craquelures) per non creare altresì l’effetto di chiusura in determinate porzioni del quadro che troppo si sarebbero differenziate dalle altre in cui non erano state fatte. Si doveva poi anche pensare all’integrazione pittorica che esse avrebbero comportato se finite come vere e proprie stuccature, pensando che quando l’opera presenta un livello di degrado più ampio e generalizzato, con numerose cadute di colore ed abrasioni, l’intero restauro deve mantenersi a livelli di finitezza molto minori e quindi si voleva e doveva“’evitare in tutti i modi che ci fosse una contraddizione tra delle zone più insistentemente richiuse e le parti irrimediabilmente deterioriate (lacune non integrabili….)” (*5). Tali raccordi, nell’ordine di nemmeno un centimetro di larghezza, sono stati concepiti ed eseguiti come uno scivolo, che man mano degrada e muore in spessore sulla tela da rifodero. (*9) Queste zone, dopo una serie di innumerevoli prove di colore su campioni fac-simile, andavano quindi integrate pittoricamente in modo che si confondessero con la tela da rifodero che, appositamente, si voleva e doveva far vedere. L’idea finale, suggerita anche dalla competente Sovrintendenza, infatti era quella del recupero dell’opera (che all’inizio sembrava quasi impossibile) che però facesse capire che ciò che era perduto lo era per sempre. Un restauro filologico quindi che trasmettesse il completo ripristino strutturale e conservativo di ciò che era giunto fino a noi, senza interferire con le mutilazioni e travagliate vicende che aveva subito l’opera nel corso degli anni.
E’ infatti scontato ma lo si ribadisce che, vista l’ampiezza e la collocazione delle lacune presenti, sia di tela che di strati pittorici e preparatori, era impensabile qualsiasi ricostruzione sia formale che cromatica. L’opera doveva quindi ricreare un nuovo equilibrio pittorico, sicuramente ben diverso da quello originale (perché ben diversi erano gli elementi che lo componevano peso, colore, tensione dinamica e gradienti (*6)), in cui coesistevano lacerti rimasti e lacune. L’interferenza e il disturbo nella lettura di un’opera è certo più complesso e consistente nel caso di perdita o danneggiamento di parti originali.
Le abrasioni e lacune possono provocare la scomparsa di alcuni elementi della composizione, talvolta di notevole importanza perché essenziali all’equilibrio generale, alla comprensione dello scheletro strutturale o più semplicemente perché significativi da un punto di vista formale (occhi, bocca..). Inoltre questi danni si inseriscono nel dipinto come elemento estraneo per forma, colore, trama etc. ed entrano quindi con il loro peso nell’equilibrio compositivo, il più delle volte sbilanciandolo. Come acutamente osservava Cesare Brandi a proposito delle lacune “contrariamente a quanto si crede, la cosa più grave, riguardo all’opera d’arte, non è tanto quel che manca quanto quello che indebitamente si inserisce” (*7) Quanto più lo stato di conservazione originale di un’opera d’arte si avvicina alla condizione di frammento, tanto più difficile diventa la ricostruzione. Un ritocco totale tecnicamente e (per noi anche stilisticamente) perfetto rimane discutibile, il ritocco neutro esteticamente insoddisfacente. Perciò si decide, in un ottica conservativa, di preservare da un ulteriore decadimento soltanto il frammento originale rinunciando a ricostruire la situazione primitiva. L’ opera d’arte viene esibita nella condizione di rovina. A differenza del ritocco neutro il fondo, legno o tela, resta visibile all'interno della lacuna. Nel caso le parti in rovina disturbino l'insieme del quadro vengono rese meno evidenti mediante lievi tinteggiature o strutture visive. Mezzi limitati spesso bastano a migliorare l'aspetto insoddisfacente di quella condizione oggettiva che, nel corso di ogni restauro radicale, costituisce la condizione di lavoro risultante dopo aver eliminato integrazioni, stuccature ecc. La finalità conservativa è evidentemente in primo piano in questo metodo che perciò appare in larga misura esente da tutti gli influssi legati alle epoche, dalle ricostruzioni soggettive del restauratore, nonché da tonalità fuorvianti e falsate del ritocco neutro. Tutti gli sforzi si limitano al tentativo di mantenere la lacuna, considerata irripetibile, nell'insieme del quadro in modo che passi il più possibile inosservata.
Come avviene nel ritocco normale, si tenta, senza principi teorici precostituiti e tenendo conto del carattere documentario del quadro, di risolvere in modo soddisfacente anche dal punto di vista estetico il problema dell'integrazione delle lacune. All'interno del dipinto l'elemento frammentario ha una forza visiva ed estetica maggiore di qualsiasi ritocco. I valori materici possono parlare con un intensità non raggiungibile neppure dall'effetto tagliente ed induttivo di un ritocco neutro. Se in un primo momento può sembrare che la conservazione del frammento corrisponda ancor più del ritocco neutro all'istanza posta da Pettenkofer di tramandare l'opera d’arte "imbalsamata ai posteri", proprio mediante l'accentuazione di strutture e valenze materiche estranee all'originale si può introdurre nel quadro un forte elemento interpretativo. Il frammento originale, amorfo è come pura sostanza, viene portato al livello delle strutture materiche. Materiali di strati più profondi e in genere non visibili, grazie ad un adeguato trattamento possono risvegliarsi ad una vita propria, concorrendo con un ruolo essenziale alla composizione dell'intera opera in rovina. Ad essi vengono attribuite valenze che, nel loro effetto estetico interno alla compagine del quadro, si collocano tra la pittura e il fascino innato di una "bella" struttura materica. Tali questioni sono essenziali per il processo di restauro di opere d’arte, perché occuparsi di un opera d’arte costituisce un incontro con un’opera segnata dal tempo, spesso con una rovina, un frammento. Ogni restauro impone il compito di confrontarsi con l'opera d arte "cresciuta", non con un originale allo stato iniziale. Più ancora di quanto l'invecchiamento e la trasformazione della superficie di un quadro, comunque ancora efficace nella sua costituzione originaria, possano modificarne l'essenza, l'opera è allontanata dal suo aspetto autentico dalla funzione spirituale di quanto manca. Con il frammento nascono nuove valenze, la cui validità non è più misurabile sulla base del resto originale. Per tutto quanto attiene la salvaguardia dei monumenti e il restauro, il rapporto con la rovina e il frammento ha una particolare importanza, perché per la prospettiva del restauro è essenziale chiedersi se e in che misura l'opera d’arte risulti accettabile nella sua forma di rovina. Questo è possibile in particolare nelle epoche in cui il torso compare come tema artistico autonomo e anche nella pittura "schizzo e dipinto portato a termine non sono più distinguibili". Questa propensione per lo schizzo si evidenzia oggi in tutti i generi di interpretazione artistica, nell'alta considerazione per opere non portate a termine o lasciate intenzionalmente allo stadio di schizzo, come in certe tendenze di moderne iniziative di restauro. L’abbozzato, l'incompiuto e il frammentario come principio di creazione artistica non comportano soltanto un influenza dello stile dell'epoca sul restauratore, ma lo pongono anche, di volta in volta, di fronte all'importante questione di stabilire i limiti dell'intervento, dell'integrazione; egli si confronta con un "frammento che però non è un frammento". La scoperta e l' utilizzo consapevole di questi stimoli per il restauro hanno avuto luogo dapprima nel restauro di opere plastiche. Lasciando residui di policromie e dorature, patine del nucleo portato alla luce e graffi della superficie si cercava di dare al pezzo stesso un aspetto "interessante", di "fascino inconsueto, tremolante, pittoresco". Con tali manipolazioni non solo è stato consapevolmente accentuato il carattere di rovina della scultura, ma se ne è anche ridotto l'impatto plastico, per ottenere effetti pittorici e giochi di luce impressionistici sulla superficie. Da qui non è lunga la strada che porta a concezioni analoghe nel restauro di dipinti.
Susat ha una posizione isolata con il suo timore per cui le strutture visibili del supporto potrebbero "disturbare l'occhio" e l'opera sarebbe tramandata ai posteri come "frammento". I suoi contemporanei sono dell'avviso che l'opera d arte non abbia affatto bisogno della parvenza di perfetta novità. La condizione di frammento è piuttosto un segno auspicabile di autenticità e offre inoltre, quanto più la forma è dissolta, la possibilità di fantasie "attive" e di stimoli estetici. Senza rigida distinzione la bellezza di un torso antico è presa a modello per un analogo giudizio su dipinti in rovina. La condizione di rudere non appare assolutamente un difetto, ma una valenza particolare. "Che compaia in parte la calda tonalità del legno accanto all'oro antico o ad un colore accentua l'aspetto pittorico" dell'opera d arte. Oppure sfrutta l'opportunità di poter leggere "facilmente dalla parte anteriore di queste tavole il materiale del loro supporto" e "non è pensabile coloritura delle lacune basata sulla preparazione di fondo o sul colore, che si possa accompagnare tanto armoniosamente alle isole di pittura quanto la tonalità del legno". L’ effetto che alcune opere d’arte esercitano su di noi sta proprio nella loro mutilazione. "Anche frammenti sono in questo senso dei dipinti, benché possa essere loro venuta meno ogni (originaria) compiutezza artistica". Al posto dell'evidente carattere originale ne compare un altro, cioè quello determinato dal gusto dell'epoca di restauro. L affermazione di Fiedier, che "l esperienza estetica non deve essere identica a quella artistica", acquista qui un significato particolare. Perché ignorare l'oggettività originaria porta per così dire ad una sopravvalutazione di una materialità estranea al dipinto e di strutture segnate dal tempo, che nella stima dei frammenti ha altrettanta importanza che in vasti ambiti dell'arte moderna. Questa relazione può portare fino all'identità visiva di dipinti in rovina, restauri e opere contemporanee. L’ epoca moderna ci ha fatto scoprire la bellezza delle tracce dell'uso e ci ha reso sensibili per tutto quanto è invecchiamento.
L impiego del restauro del "dipinto in quanto frammento" dipende sostanzialmente dal caso che si ha di fronte secondo il principio di ogni "integrazione": essere il meno possibile di disturbo. Potrebbe apparire particolarmente adatta dove danni estesi escludono un ripristino. In caso di impiego moderato ha il vantaggio, rispetto al ritocco neutro, che non intacca la sostanza del dipinto e lascia aperte tutte le possibilità per un integrazione successiva; risparmia perciò il dipinto da un duplice punto di vista. Nel contempo le parti scoperte rendono eventualmente possibile un miglior controllo del quadro malato. D’ altra parte questo significa anche, specialmente in presenza di profonde mancanze di colore o della preparazione, un maggior rischio per la parte originale attigua. Mancando la stuccatura influssi esterni dannosi possono immediatamente raggiungere il supporto scoperto e insinuarsi con maggiore facilità sotto la preparazione e lo strato di colore. Perciò in varie occasioni il bordo di congiunzione tra colore e supporto viene particolarmente isolato e reso obliquo con cera o stucco.
Oggi si utilizza spesso questo metodo nei quadri il cui effetto visivo tollera relativamente bene la condizione di frammento, sia dal punto di vista stilistico, per la struttura particolarmente grossolana e tattilmente efficace della superficie sia per un generale invecchiamento, che lega il dipinto a questa modalità di restauro a causa della sua condizione di rovina. Questo metodo ottiene effetti di contrasto per noi affascinanti su dipinti medievali, tavole gotiche, opere di antica scuola italiana e icone. Qui però sussiste il pericolo che sia un elemento di gusto a determinare la loro predilezione. Potrebbe essere inadeguato in dipinti in cui vengono interrotte forti correnti di moto e dove parti essenziali per il quadro richiedono integrazioni più o meno intensive. Per prendere una decisione sarà importante anche la questione del significato e del valore del quadro. Non invece quella del luogo (determinante per il ritocco neutro), perché per noi il "dipinto in quanto frammento" è pensabile sia in un museo che nell'ambito privato. A questo riguardo non si può trascurare il pericolo, per cui questa tendenza stimola interventi anche laddove mediante il restauro non può venire alla luce che un frammento. In questi casi occorre seriamente considerare se non si debba propendere per la conservazione di aggiunte successive storicamente altrettanto efficaci (anche quelle del XIX secolo e in particolare quando non coprono la pittura originale), sia che non ci sentiamo più in caso di accettare nuove integrazioni, sia che riconosciamo quanto sia relativa la validità della conservazione del "dipinto in quanto frammento". Sono particolarmente numerosi gli esempi della pittura moderna in cui il quadro "finito" viene "rovinato", per esempio asportando gli strati superficiali del quadro così da rendere visibile il supporto, tagliando la tela ecc. Oppure in quadri materici viene evidenziata la materialità e le specifiche "possibilità" del materiale mediante diversi stadi di invecchiamento e di frammentarietà.” (*9)
L’idea di partenza quindi, in accordo con il Funzionario competente era quella di non intervenire in alcun modo sulle lacune lasciando la tela da rifodero in evidenza e creare, nei piccoli bordi di raccordo, un colore neutro eno trascurabile (ai fini della lettura successiva) nella scelta di tale soluzione era il principio della percezione visiva secondo cui ogni colore ha un peso ed è un fattore fondamentale nella ricerca dell’equilibrio. E’ ormai noto che i colori caldi “pesano” di più di quelli freddi e applicando questa regola era ben evidente che, nell’integrazione pittorica dei raccordi a stucco mediante colori caldi appena descritta, ciò che balzava all’occhio di chi osservava erano proprio tali zone. Ossia si otteneva proprio l’effetto che si voleva evitare.
Mentre nel caso dell'integrazione totale il ritocco mira all'identità tra integrazione e originale, nel caso dell'integrazione neutra tende alla realizzazione oggettiva del principio conservativo-documentario. Nel primo caso si cerca di soddisfare la totalità artistica dell'opera, nel secondo di realizzare una teoria. Tutti gli sforzi per migliorare il ritocco neutro, tutte le sue varianti mirano ad una applicazione all'interno del dipinto che risulti più discreta visivamente ed esteticamente. Occorre suggerire l'obbligo di non guardare. Perciò si cerca un adattamento cromatico, formale e strutturale al contesto originale, oppure si crea una "neutralità" tanto perfetta, che non favorisce la leggibilità del testo, ma neppure turba il godimento del resto originale. Nel primo caso (integrazione totale) ci si avvicina sempre più al metodo dell'integrazione totale: si prolungano i contorni delle forme fino all'interno della lacuna, si adatta colore e tonalità al contesto originale e si imitano la struttura e l'invecchiamento della superficie del dipinto.Nel secondo caso nella tonalità e nel colore si resta sottotono rispetto alla gamma di colori utilizzata nel dipinto, si applica lo stucco sottolivello e ci si avvicina infine al restauro del "dipinto in quanto frammento" in cui, dopo un trattamento quasi esclusivamente conservativo, la lacuna viene lasciata senza stuccatura nel suo effettivo aspetto di rovina. (*10)
Il colore quindi che si è scelto è grigio, un tono freddo, simile al colore della tela da rifodero e di stesura uniforme ma non compatta e leggermente macchiato per non creare l’effetto sordo. Tale colore è stato quindi applicato su ogni zona di stuccatura senza diversificare il tono per non creare confusione all’interno dell’opera ed eseguito con colori ad acquerello Windsor & Newton succeduti da velature con colori a vernice. Nella lettura d’insieme dell’opera le lacune ora si percepiscono (come si voleva) ma riportano in primo piano il lacerto originale e ne restituiscono la comprensione senza interferire. L’occhio, da sé, ricompone l’immagine e la comprende.
L’intervento svolto sembra aver raggiunto l’intento che ci si era prefissati: recuperare e conservare un’opera che sembrava persa, nel rispetto delle tracce che il tempo ha lasciato su di essa e in un modalità che comunque testimoni le sue travagliate vicende storiche e conservative.
L’opera viene ricollocata all’interno dell’ancona e posizionata sulla parete della Chiesa di S. Gregorio opportunamente risanata dalle infiltrazioni e percolazioni di acqua e umidità di risalita. In accordo con la competente Soprintendenza e per favorire il ricircolo d’aria l’intero manufatto viene tenuto distanziato dal muro mediante l’aggiunta di due travi di sezione rettangolare in massello di larice stagionato lunghe tutta l’altezza della cornice, predentemente trattate con impregnante e protettivo a base di cera così come il telaio del dipinto. A contatto con il muro viene messo un ulteriore spessore costituito da un profilato tubolare in acciaio a sezione cava rettangolare lungo anch’esso tutta l’altezza dell’ancona.
Bibliografia:
* 1 - Grazie al Prof. Claudio Ferrari che l’ ha gentilmente messa a disposizione.
* 2 - La Biologia nel Restauro –G. Caneva, M.P. Nugari, O. Salvatori (1994) Nardini Ed. Pg. 94
* 3 - G. Berger – La foderatura: metodologia e tecnica (1992) Nardini Ed. Pg. 22- 26
* 4 - Problemi di restauro – riflessioni e ricerche – AAVV Conservazione dei dipinti su tela - Marco Ciatti (1992) Firenze Ed. Pg. 87
* 5 - Problemi di restauro – riflessioni e ricerche – AAVV La percezione visiva nel restauro dei dipinto. L’intervento pittorico. C. Rossi Scarzanella, T. Cianfanelli (1992)Firenze Ed. Pg. 201
* 6 - Problemi di restauro – riflessioni e ricerche – AAVV La percezione visiva nel restauro dei dipinto. L’intervento pittorico. C. Rossi Scarzanella, T. Cianfanelli (1992)Firenze Ed. Pg. 186
* 7 - Problemi di restauro – riflessioni e ricerche – AAVV La percezione visiva nel restauro dei dipinto. L’intervento pittorico. C. Rossi Scarzanella, T. Cianfanelli (1992)Firenze Ed. Pg. 192
* 8 – G. Berger – La foderatura: metodologia e tecnica (1992) Nardini Ed. Pg. 45
*9 – H. Althofer – Ritocco pittorico: ritocco del dipinto in quanto frammento.
*10 – H. Althofer – Ritocco pittorico: il ritocco neutro.
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