Madonna con Bambino - (Sec XV)


Madonna con Bambino e Angeli
1450 ca.
Tempera grassa su tavola

Il dipinto della Vergine in trono con il Bambino ed Angeli è una meravigliosa opera su tavola di 114 x 69 cm., il manufatto risale al 1400 ad sino ad oggi le poche notizie su quest’opera non consentono di determinare chi ne è l’autore e da dove provenga. Il restauro del dipinto, come sempre accade, rappresenta l’occasione per uno studio approfondito dell’opera da parte di storici dell’arte e forse anche una eventuale possibile attribuzione. Il dipinto policromo (tempera grassa/olio magro) e dorato, eseguito su tavola lignea, raffigura la Madonna, dai capelli biondi e occhi allungati, in trono con in braccio il Bambino Gesù; sopra al trono spuntano due angeli che reggono la corona dorata della Vergine. Il Bambino porta una collana ed un braccialetto in corallo e regge in mano un oggetto dorato legato ad un filo ad un cardellino dal piumaggio variopinto. La doratura del fondo è in oro zecchino riccamente punzonato

Prima del restauro uno strato, alterato e annerito nel tempo, composto da tracce di vecchie vernici e  sporco, polvere e nerofumo ne disturbavano la corretta lettura  e alteravano la naturale brillantezza dei colori. Si notavano inoltre alcuni leggeri sollevamenti, sebbene non prossimi al distacco, in cui emergeva la necessità di una fermatura. Il supporto ligneo dell’opera, realizzato in un’unica tavola di noce, era quasi perfettamente conservato.

Sembra infatti scontato il fatto che tale opera, proprio per la sua conformazione (ad es. i fiori blu sul fondo), in origine non fosse stata concepita come tavola a sé stante ma come parte di un impianto più complesso (trittico, ancona ecc…) o che quantomeno avesse delle ante che la proteggevano. 

La prima fase del restauro è consistita in una accurata osservazione dell’opera con una serie di strumenti di indagine (non invasiva) e sotto opportuno ingrandimento. Dal punto di vista della tecnica esecutiva è opportuno dire che si tratta di un’opera molto interessante e particolare, che talvolta si distingue dalle più tradizionali regole e modi di applicazione delle operazioni e materiali di quell’epoca: il disegno preparatorio è eseguito per incisione e con carboncino direttamente sul gesso di preparazione (come emergerà dalle indagini scientifiche e dall’analisi stratigrafica compiute sull’opera), gli strati sono molto sottili, sia di preparazione sia di materia pittorica e inoltre non esiste traccia di applicazione di inserti di tela spesso usati nelle zone di maggior sollecitazione del legno.

Grazie all’osservazione mediante ultravioletti e sotto ingrandimento del microscopio si sono resi ben evidenti i precedenti ritocchi pittorici, presenti tutta la superficie, e risalenti ad un vecchio restauro (anni '20 del '900) molto bene eseguito (testimoniato da M.Gnoli Lenzi nel 1939). Presenti in quantità essi erano limitati alle sole zone di stuccatura, non debordanti sull’originale, eseguiti con grande maestria ed in modo davvero accurato. Tali reintegrazioni però, a causa del loro viraggio cromatico dopo molti decenni dalla loro esecuzione, costituivano ora un elemento di disturbo nella lettura generale dell’opera.

Il restauro è proseguito nell’approfondimento della conoscenza del manufatto  mediante piccole prove e test preliminari. Una volta stabilita la corretta metodologia da adottarsi, grazie ai risultati dei precedenti saggi, la pulitura è avvenuta in modo stratigrafico e seguendo criteri adeguati in relazione al grado di percezione e all’equilibrio cromatico delle diverse parti componenti l’opera. La metodica, flessibile e rispettosa delle peculiarità emerse in fase di studio preliminare e in accordo con le indicazioni fornite dal Funzionario dell’Autorità di tutela si è distinta a seconda delle diverse zone e della loro alterazione. Su tutta la superficie è stata rimossa la prima parte di deposito (nerofumo e sporco), in seguito, in modo differenziato (quindi solo ove necessario) si è ripetuta l’operazione in modo localizzato e sotto ingrandimento del visore o del microscopio digitale. I vecchi ritocchi a tempera in parte sono stati rimossi o abbassati di tono. Le parti invece più estese di vecchia ripresa pittorica, sempre a tempera e facenti parte sempre del medesimo vecchio restauro, (rosso della parte destra del trono e veste dell’Angelo di sinistra) sono state lasciate intatte andando solo ad eliminare sporco e depositi. Tali zone sono infatti da considerarsi oramai storicizzate e facenti parte della vita dell’opera stessa.

Conclusa la pulitura sono state affrontate le zone di sollevamento e di caduta mediante fermature  localizzate. La fase di stuccatura è consistita in una revisione generale di tutta la superficie andando ad individuare tutte le parti ove, a causa di piccole lacune, microfessurazioni o precedenti vecchie stuccature sottolivello era da restituire la giusta planarità. La stuccatura è stata eseguita con gesso di Bologna e colla di coniglio ed è stata effettuata in due fasi: la saturazione delle zone sopraccitate seguita da levigatura a livello e una imitazione della superficie (sempre con gesso e colla) ricreando l’effetto e la giusta porosità, crettatura o effetto di superficie della zona adiacente la lacuna ripristinata.

La reintegrazione pittorica è consistita nell’abbassamento di tono di tutte le precedenti stuccature mediante acquerelli con tecnica a tratteggio e leggermente sottotono nelle parti di superficie più ampia (rosso veste dell’Angelo di sinistra). Nelle lacune poste sulla doratura l’intervento di integrazione pittorica ha previsto sempre l’impiego di acquerelli giustapponendo leggere applicazioni di oro in conchiglia per ricreare la naturale rifrazione dell’oro difficilmente raggiungibile solo mediante i colori.

 

La Madonna con il Bambino e angeli  -  di Sandra Sicoli 

Funzionario incaricato per la Valtellina della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici di Milano.

" La tavola, che in origine doveva costituire il centro di un trittico o forse anche di un polittico, è citata per la prima volta da omissis (2*)..tra il 1927-8. Un testo, come si sa, fondamentale per ripercorrere le vicende non solo artistiche di questo territorio. L’opera misura 114 cm. x 69 cm. Come suggerisce il professore Guido Scaramellini, che ringrazio, l’opera era collocata fin dal 1911 nella casa parrocchiale di  omissis. La provenienza originaria non è documentata.  L’ipotesi più probabile è che fosse conservata nella chiesa prepositurale di San omissis, una chiesa di inizio Cinquecento (consacrata nel 1528), più volte manomessa negli spazi ed egualmente negli arredi. Non vi è alcuna traccia, però, nelle “Visite Pastorali”, la prima delle quali compiuta dal vescovo di Como Feliciano Ninguarda tra il 1589 e il 1593.

Erano sopralluoghi di carattere sostanzialmente liturgico con stesura di “Atti” dove venivano anche menzionati gli oggetti di una parrocchia, il loro stato di conservazione ed i loro eventuali spostamenti. E’ la prima fonte che si consulta quando si inizia uno studio alla ricerca della primitiva ubicazione. In seguito si cercano i documenti in archivio, sia in quello parrocchiale sia in quello diocesano per avere tracce su cui fondare ipotesi attribuzionistiche e cronologiche.Della nostra opera non c’è menzione in nessuno di questi, purtroppo. Si procede quindi per deduzioni. Come per molti dipinti su legno, così come per le sculture, la distruzione era pressoché costante, come anche l’occultamento e lo smembramento dei pezzi. Era una questione di gusto. Queste opere, considerate “primitive”, allora con designazione negativa (un po’ come per la categoria del “barocco”), non erano affatto apprezzate nei secoli Sei, Sette e Ottocento. Le cose cominciarono a cambiare alla fine dell’Ottocento grazie soprattutto ai conoscitori tedeschi ed inglesi che iniziarono a studiare con sistematicità e conseguentemente ad apprezzare questi esemplari “di alta epoca”, determinandone così le valutazioni economiche. Nel nostro caso è già una fortuna che si sia conservata almeno la parte centrale dell’opera. Oltretutto essendo omissis in un territorio di frontiera, non era infrequente che i dipinti emigrassero per altre terre con grande facilità. Anzi questa potrebbe essere un’ulteriore ipotesi e cioè che le parti laterali siano state vendute al migliore acquirente (per lo più d’oltralpe, considerata la tipologia dell’opera), tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Comunque anche solo questo “frammento” permette di fare alcune considerazioni. E’ una testimonianza, interessante e molto si- gnificativa per la storia della valle, di una produzione rinascimentale, certo non all’avanguardia, ma di qualità e di particolare raffinatezza tecnica, come si evince dall’intervento di restauro condotto, con grande rigore, dalla signora Letizia Greppi di Sondrio.

L’aspetto tecnico non è affatto secondario. Si tratta di una tempera grassa (l’alternativa potrebbe essere un olio magro), con una doratura a guazzo su bolo rosso (come di consueto, secondo la metodologia in uso, con la foglia d’oro). La superficie è punzonata in modo regolare e contribuisce grandemente all’impreziosimento del manufatto, un manufatto talmente “canonico” da far venire il sospetto che potesse trattarsi di un falso. Non era infrequente, infatti, come testimoniano diversi scritti e lettere, che i commercianti d’arte italiani e non, a cavallo dell’Ottocento, incaricassero alcuni artisti (i falsari) per eseguire piccoli altari portatili, anconette, ecc , tale era la richiesta da parte del pubblico. Un pubblico anche sofisticato, non certo sprovveduto, come i direttori e i conservatori di musei che giravano per l’Italia letteralmente “a caccia” di opere, pagate spesso profumatamente. A tutt’oggi si conservano in gallerie pubbliche opere notoriamente false. Accantonato questo sospetto, grazie alle inconfutabili indagini scientifiche e anche alle operazioni di restauro che consentono una vicinanza fisica con l’opera straordinaria, si è cominciato a riflettere su quale fosse la strada migliore per affrontare un lavoro su un esemplare così delicato. Nel libro omissis (Roma, 1938), si accenna ad un intervento conservativo datato intorno al 1920. Ma nelle carte della Soprintendenza di Milano, da cui questo territorio dipese dal momento della sua istituzione, il 1907, non ho trovato alcun accenno. Erano anni in cui non sempre si chiedeva l’autorizzazione per i restauri. La legge dello Stato relativa alla tutela delle Belle Arti, prima quella del 1902, poi quella più organica del 1909, era un provvedimento lontano, che non sembrava riguardare questi luoghi. E i danni si sono visti, purtroppo. Interventi spesso grossolani, se non addirittura sciagurati su opere che sarebbe stato molto meglio non toccare. Un po’ come succede con il materiale archeologico che in molti casi è meglio non dissotterrare, come gli archeologici non si stancano mai di ripetere. Ma fortunatamente nella tavola di omissis chi ha operato ha lavorato con intelligenza e con sapienza tanto che si è deciso con la restauratrice di non togliere alcuni rifacimenti, ben fatti e ormai coerenti con l’insieme. Tra gli addetti ai lavori si parla in questo caso di “intervento storicizzato”. La direzione di un’opera di restauro è anche questo, o forse soprattutto è questo. Il decidere, non a priori (pur ovviamente con dei precisi indirizzi di metodo), sul da farsi, volta per volta, a seconda della tipologia dell’oggetto, della sua epoca, della sua collocazione. Non è detto infatti che un precedente intervento debba essere sempre eliminato. Si valuta e si decide pian piano, pensando anche che qualsiasi atto su un’opera è sempre in relazione ad altri, non è mai unico, a sé stante; e lo sforzo maggiore, oltre naturalmente alla perizia tecnica che un bravo restauratore deve  possedere, è proprio quello di intervenire senza lasciare traccia personale dell’intervento, ma nel contempo far comprendere che l’oggetto ha avuto (subìto?) un restauro. Il supporto, realizzato in legno di noce, era ben conservato, fortunatamente. Sul retro si notavano le nove “farfalle” inserite già in origine dal pittore per prevenire possibili e probabili spaccature del legno. Il legno è un materiale vivo che si muove, espandendosi o ritraendosi, a seconda delle temperature e dell’umi- dità. E’ così che si creano fenditure, spaccature che interessano di conseguenza anche la superficie pittorica (sul davanti, “recto”) che viene sollecitata e si stacca via via dal supporto (“cadute di colore”). Anche per questo motivo bisogna valutare con cura il luogo dove un’opera va collocata. La restauratrice si è quindi potuta dedicare interamente alla superficie pittorica che presentava un diffuso “craquelé” (superficie fratturata), non troppo evidente, ma comunque insidioso. Nel complesso anche il degrado superficiale, quello dovuto al tempo (polveri, sedimentazioni di grasso, nerofumo di candele, ecc…), come anche il degrado delle vernici, dovuto a vecchi interventi dell’uomo, si presentava uni- forme e non drammatico. La signora Greppi ha quindi provveduto, aiutandosi con un’adeguata strumentazione all’operazione di pulitura mediante visore per ingrandimento, lampada a raggi ultravioletti, uso del microscopio digitale; successivamente si è proceduto con l’operazione di stuccatura (piccole lacune) per poi concludere con la reintegrazione pittorica. Come sempre, una volta concluso l’intervento in senso stretto, l’opera è stata verniciata per essere protetta dalle ingiurie del tempo, sia sul davanti (si usano vernici adeguate a basso grado di ingiallimento), sia nella parte posteriore (cera d’api).

L’iconografia della Vergine col Bambino in trono è quella canonica e non ha bisogno di particolari commenti. In questo caso la Vergine è seduta su un trono di forma architettonica che echeggia, semplificandole, linee rinascimentali. E’ raffigurata con in braccio il Bambino che reca in mano un oggetto dorato (una sorta di bacchetta)(*1) con il quale gioca con il cardellino, posizionato al suo fianco. Un motivo iconografico piuttosto raro, di particolare effetto narrativo. Sopra il trono sono due angeli, anch’essi elementi tradizionali di questo soggetto, che reggono la corona della Madonna. La composizione è caratterizzata nell’insieme da una ricerca di naturalezza che si manifesta nella resa quasi “domestica” del gruppo, non aulico, ma ricercatamente devozionale. Lo spazio è un po’ compresso e i corpi, non particolarmente plastici, risultano comunque ben assestati all’interno del quadro che si qualifica soprattutto per un senso di quotidianità. Prevale un orientamento arcaicizzante che ben si sposa con la predilezioni di elementi decorativi, naturalistici. Siamo in presenza di un artista qualificato, attivo a inizio Cinquecento, non particolarmente aggiornato che riprende il gusto, prolungatasi nel tempo (non solo in questi territori, ma in più parti di tutta la penisola), della stagione“tardogotica”. Ne sono traccia l’uso del “fondo oro”, soluzione che già veniva abbandonata dagli artisti attivi in quello stesso arco di tempo; l’elaborata lavorazione dell’aureole; l’insistito uso dell’oro - della stessa materia delle au- reole spera si possa, con future ricerche, assegnare in maniera più precisa ad un artista, ricostruendo magari anche le vicende della committenza che ora, in fase di ipotesi, assegnerei al memento della edificazione della chiesa. ■"

                                                                                                                                                       Sandra Sicoli

 

Le Indagini scientifiche e stratigrafiche effettuate durante il restauro del manufatto sono state eseguite dal dott. Stefano Volpin, Padova.

*1) Letizia Greppi suggerisce la possibilità che possa essere un sorbo, un frutto che spesso si dava agli uccellini da mangiare 

*2) Le omissioni nel testo sono volute e servono a non dare indicazioni precise sulla collocazione dell'opera. La restauratrice è a disposizione per integrare a voce, su specifica richiesta, le informazioni mancanti. Vedi contatti sul sito.

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